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L’IMBARBARIMENTO DELLE FORZE DI POLIZIA? NON È COLPA DELL’ADDESTRAMENTO MA DEL CATTIVO ESEMPIO

di Umberto Rapetto
18/09/2020
in EDITORIALI
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Ho visto con stupore e con un certo fastidio l’articolo di Wired intitolato “E se il problema della polizia fosse l’addestramento?”, firmato da Davide Ludovisi e incentrato su una intervista al professor Charlie Barnao, docente di sociologia all’Università Magna Graecia di Catanzaro.

Se non siete inciampati in quel testo, non perdete l’occasione per leggerlo. Barnao nel 2019 ha tenuto – tra l’altro – il seminario “Il soldato (im)perfetto. Un’etnografia sull’addestramento militare, tortura e formazione di personalità autoritaria” alla Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’Università di Palermo. Nulla quaestio sulla sua formazione accademica e sulla sua passione per l’approfondimento di tematiche come l’addestramento militare e della polizia e le culture fasciste (così come si legge nel suo CV sul sito dell’Ateneo calabrese).

Il tono estremamente assertivo potrebbe trovare radice in una sgradevole esperienza personale del professore che nei suoi trascorsi vanta un anno nei paracadutisti della Brigata Folgore, esperienza che forse potrebbe averlo segnato profondamente in maniera negativa.

Il professore – partendo dai drammatici recenti casi di cronaca statunitensi – addebita all’addestramento i “comportamenti sadici e di violenza incontrollata” degli operatori di polizia e riconduce certe condotte di casa nostra alla medesima matrice.

Dal G8 al caso Cucchi o all’inferno di Piacenza non mancano certo le pagine che chiunque vorrebbe strappare dalla storia di questo Paese, ma addebitare certi vergognosi eventi al ciclo di formazione mi sembra fuorviante.

Non vanto un curriculum studiorum di impronta sociologica, ma mi sono arruolato volontariamente a sedici anni nel 1975, entrando – dopo un impegnativo concorso, senza raccomandazioni e con i miei genitori che forse preferivano continuassi il liceo in collegio dai Salesiani ad Alassio – alla Scuola Militare Nunziatella. Sono stato prima allievo ufficiale del Corso Carabinieri a Modena e poi ho frequentato l’Accademia della GdF a Roma. Ho fatto non occasionalmente l’allievo e l’istruttore a più riprese in realtà militari e di polizia, in contesti pubblici e privati, vestendo l’uniforme per 37 anni e avvertendo disfunzioni diverse da quelle rilevate da Barnao nel suo percorso.

Vedere l’universo in montura come Shakespeare la Danimarca, mi sembra riduttivo. C’è del marcio ovunque. Sempre.

Gli atteggiamenti inammissibili sono figli della mancata istruzione, non di un ciclo addestrativo. Le condotte tracotanti sono l’espressione purulenta della prepotenza gratuita che ha saturato qualunque ambiente con i suoi modelli di affermazione amplificati dalla “demeritocrazia”, dai reality televisivi, dall’esibizionismo dei social, dal cattivo esempio dei “superiori” e dalla sostanziale impunità garantita a chi si macchia di infamia e magari se ne vanta.

Il vero problema è il “non addestramento”

L’aspirante “sbirro” comincia spesso con il piede sbagliato e lo fa ancor prima di varcare la soglia di un reparto di formazione militare e di polizia.

Il primo passo è quello di trovarsi uno “sponsor” che gli assicuri il perseguimento dell’obiettivo di entrare in questa o quella Istituzione. E’ il riconoscimento di una Autorità parallela, in grado di alterare graduatorie, di privilegiare il pupillo di qualcuno, di vanificare gli sforzi di chi crede legittimamente di avere le carte in regola per farcela, di ridurre significativamente il margine di successo di chi si è preparato con impegno e sacrificio.

E’ quello il primo step della prepotenza, non gli strilli del graduato che – come il sergente Emil Foley in Ufficiale e Gentiluomo – dà il suo benvenuto alla recluta dicendo che dall’Oklahoma vengono solo tori e checche…

L’arroganza e il sopruso sono il leitmotiv antecedente l’ingresso in qualsivoglia organizzazione ad ordinamento militare e non. Ottenere immeritatamente un posto è il primo traguardo della violenza.

Si dovrebbe insegnare – già da piccoli a casa e poi a scuola – a non cercare scorciatoie, a lottare lealmente per raggiungere un traguardo, a sottoporsi alle prove della vita mettendo al bando l’aggressività fuori luogo. Chi si arruola arriva già vaccinato alla sopraffazione e lo stesso imprinting caratterizza chi accede negli enti pubblici e in tante aziende (soprattutto quelle partecipate dallo Stato).

Nessuno si prende la briga di trasferire maieuticamente sani principi o di iniettare spirito di emulazione e rispetto di tutto e di tutti.

Il cattivo esempio e l’impunità

Non è il soggiorno nelle Scuole militari o di polizia a incattivire chi le frequenta. Anzi. Certe mortificazioni (dal bullismo laico al nonnismo delle caserme, al “cappellonaggio” della Nunziatella o delle Accademie) insegnano che gli scherzi di cattivo gusto fatti dagli “anziani” sono solo un assaggio di quel che la vita è destinata a riservare. Le intollerabili umiliazioni sono la versione bonsai dei soprusi che toccheranno in sorte anche negli ambienti in cui l’aggettivo “civili” è incredibilmente farisaico.

Le prevaricazioni non si insegnano ma è il cattivo esempio che ne glorifica la valenza.

Invece di guardare ai banchi e ai cortili dei Centri di Addestramento, si dovrebbe dare un’occhiata e puntare il dito sull’operato di chi ha posizioni di responsabilità, di chi dà ordini illegittimi, di chi dice “la loi c’est moi”, di chi pensa di farla franca, di chi è sicuro di non dover pagare per le sue nefandezze.

E in quei casi non c’è bisogno di vestire un’uniforme, ma è sufficiente ricoprire un ruolo o una posizione. Quanti, al pari del cinematografico “giudice Dredd”, credono di incarnare la legge e di poter fare quel che vogliono?

Nessuno nelle Scuole insegna a torturare, nessuno insegna a mentire, nessuno insegna ad abusare. Non è un problema di addestramento (troppo facile da risolvere) ma semplicemente di educazione.

Già, l’educazione. Quella che secondo qualche dizionario è il “metodico conferimento o apprendimento di principi intellettuali e morali, validi a determinati fini, in accordo con le esigenze dell’individuo e della società”.

Quel processo di formazione dovrebbe includere l’imparare anche a non tacere dinanzi alle nefandezze dei colleghi che (con “opere e omissioni” si direbbe nelle preghiere) sono al servizio del crimine organizzato e non del cittadino, a denunciare chi non conosce la differenza tra “giustiziare” e “fare giustizia”, a dire basta quando si sfiorano i limiti molto prima di arrivare a superarli, a mantenere il controllo nelle situazioni in cui le provocazioni sono davvero difficili da sostenersi.

Ma se chi ha disposto operazioni di “macelleria messicana” ha fatto formidabile carriera tra ossequi e applausi del Gotha istituzionale, l’omino in divisa potrà mai immaginare che non si fa così? E sarà colpa dell’addestramento?

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